Emanuele Caposciutti, dopo gli studi di filosofia si dedica da diversi anni alla fotografia (www.emanuelecaposciutti.com). Così descrive la sua scoperta e il suo rapporto con la fotografia: «Sono arrivato tardi alla fotografia. Fin quasi al termine degli studi accademici non solo non possedevo una macchina fotografica, ma neppure mi curavo degli scatti altrui. La foto ricordo, poi, non m’interessava, oppure, se mi riguardava da vicino, mi metteva a disagio, rammentandomi dolorosamente il passare del tempo. Ma ecco che durante i bei giorni d’un aprile fiorentino, annoiato e disilluso, cominciai a pensare che avrei potuto trovare nella fotografia quel rapporto pieno e diretto con le cose che mi sfuggiva, e che mi sfugge tutt’ora. Non che fossi così ingenuo e sprovveduto da illudermi che la fotografia riproducesse fedelmente la “realtà”. Piuttosto mi sembrava che la fotografia mi permettesse di concentrarmi sul mondo, d’osservarlo con sguardo attento, tanto da potermi beare della luce, delle forme e dei colori grazie al rilievo dato loro con lo scatto. In questi anni ho avuto la conferma di quanto la fotografia sia tutto tranne la mera riproduzione della (presunta) realtà. Anche sforzandosi di “registrare” la luce e i colori così come li vediamo, il punto di vista, il ritaglio della visione, il concentrarsi su un soggetto piuttosto che su un altro, la profondità di campo, la prospettiva dovuta alla scelta della lente ecc. rendono lo scatto come un alcunché d’altro e di mediato (dal soggetto che fotografa e dallo strumento che registra) rispetto alla realtà. Fotografando mi sono altresì reso conto che spontaneamente vado a cercare l’ordine. Per me ogni singola foto è uno spazio delimitato che ha da essere riempito in maniera regolare, si tratti d’un ritratto o d’uno scorcio cittadino. L’armonia e l’equilibrio delle parti e dei piani sono quello che mi sforzo sempre di rappresentare. Potrei azzardarmi ad affermare d’avere un’idea classica della fotografia. Classica e affatto emotiva. Non sono interessato a “colpire”, a “emozionare” l’osservatore; né tanto meno a “scuoterlo” o “sconvolgerlo”. Cerco solo di trasmettere quel senso d’intima pace e soddisfazione che provo ogniqualvolta riesco a estrapolare o isolare l’armonia in ciò che mi sta davanti». 

Maddalena Cavalleri, insegnante di lingua francese e poi di sostegno, ha tradotto e curato opere di Colette Nys-Mazure e di Christian Bobin, tra cui Folli i miei passi, Sovranità del vuoto, La vita e nient’altro e L’uomo del disastro. Ha pubblicato Il carrello di Thérèse. Tre racconti, una città, due mondi (Atì Editore, 2009). Insieme a Lorenzo Gobbi, ha fondato “Il Passero bianco” Associazione culturale.

Lorenzo Gobbi (Verona 1966 – www.lorenzogobbi.com) ha tradotto e curato opere di autori come Rainer Maria Rilke (Vita di Maria, 2000; Le rose, 2006; Libro d’ore, 2009; Sento le cose cantare, 2010; Lettere a un giovane, 2015) e Etty Hillesum (Il bene quotidiano. Breviario dagli scritti, 2014); nel 2012, ha ottenuto il Premio Catullo dell’Accademia Mondiale della Poesia dell’Unesco. Le sue poesie sono raccolte in La gioia è un turbine di quiete (Atì Editore, 2012). Ha scritto diversi saggi, tra cui L’albero coricato. L’intimità, il tempo e il desiderio: il Cantico dei cantici di Marc Chagall (Castelvecchi 2016).

 

 

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